SPI-CGIL Lega 12 - Nichelino Vinovo Candiolo

      

 

Paolo Soldini COPERTINA di Paolo Soldini, giornalista, ha lavorato per l’Unità, quotidiano per il quale è stato a lungo corrispondente da Bruxelles e Berlino

Alla vigilia del voto

Europa al bivio

Europa al bivio Tra il 6 e il 9 giugno oltre trecentocinquanta milioni di cittadini del vecchio continente saranno chiamati a eleggere il nuovo Parlamento di Strasburgo. Il voto sarà decisivo per rilanciare il ruolo dell’Unione oppure si risolverà in un’altra occasione persa? E quali sono le questioni urgenti che chiedono una soluzione?

Le elezioni europee all’inizio di giugno cadono in un momento davvero decisivo della vita delle istituzioni di Bruxelles e dello sviluppo (o l’involuzione) della prospettiva dell’integrazione in senso federale. Tutto lascia pensare che sarà l’ennesima occasione persa. Come è avvenuto in tutte le elezioni del passato – e forse questa volta ancora di più – i temi che possiamo definire “europei” hanno un rilievo minimo nelle campagne elettorali. Pensiamo soprattutto a quella che si sta svolgendo in Italia, ma l’impressione è che anche negli altri paesi d ell’Unione la situazione non sia molto diversa. Temi nazionali dominanti. Le divisioni e la competizione tra i partiti sui temi nazionali fanno aggio su un confronto sui grandi temi che lo vogliano o no i politici che hanno gli occhi fissi sul proprio "cortile di casa" sono destinati a imporsi in modo sempre più radicale e profondo sulle scelte politiche future dei governi. Anche a citarli in modo superficiale e un po' disordinato, questi temi indicano molto chiaramente non solo la necessità che intorno a essi si sviluppi un serio confronto dialettico europeo, da un lato, tra gli interessi nazionali espressi dai vari governi e, dall'altro, sulle grandi opzioni politiche generali sostenute dalle principali famiglie politiche europee.

In Italia si vota d alle 14 alle 22 di sabato 8 giugno e dalle 7 alle 23 di domenica 9. Gli elettori piemontesi andranno alle urne anche per rinnovare il consiglio regionale

Le urgenze. Il primo e più urgente in questo momento storico è quello posto dalle guerre che insidiano la convivenza civile, la sicurezza e, in ultimissima analisi, la stessa vita degli europei. La tragedia provocata dall'aggressione russa all'Ucraina, ma anche la tremenda epifania di ingiustizie determinata dal terrorismo di Hamas e dalla reazione devastante del governo Netanyahu - contraria a ogni regola del diritto internazionale - avrebbero dovuto accendere tra i ventisette leader dell'Unione una discussione molto più seria e profonda del poco che si è visto sul ruolo dell'Europa nel gioco delle potenze e, più in particolare, sulla prospettiva della creazione di un apparato di difesa comune. Come si è visto nell'ultimo Consiglio europeo, né i Capi di Stato e di governo né i detentori delle istituzioni europee, Commissione e Consiglio, sono stati capaci di affrontare anche il primo e più immediato dei problemi che si pongono: se le spese necessarie a creare una struttura militare comune debbano essere sostenute da un finanziamento in bond europei, cioè attingendo a un debito comune com'è stato il caso delle spese per i vaccini e per la ripresa dal Covid, sviluppate poi nel fondo Next Generation Eu, oppure debbano essere a carico dei bilanci nazionali. Nel vertice di Bruxelles la soluzione indicata è stata una "raccomandazione" della Commissione per un aumento delle spese militari del 2 per cento in ciascun paese: un'indicazione molto vaga e poco credibile in un momento di gravi difficoltà di bilancio in buona parte dei paesi europei, a cominciare dall'Italia. Finora, soltanto la Germania ha dato prova della propria capacità di aumentare (per cento miliardi di euro) il volume delle spese militari e questo le ha offerto un argomento in più per porsi a capo del gruppo dei paesi "frugali" che si oppone a ogni ipotesi di creazione di ulteriore debito comune europeo.

Passi indietro sul clima. Un altro grande tema che dovrebbe essere al centro dell'interesse, e delle competenze, dei politici che si candidano al Parlamento europeo è quello della transizione ecologica. Molti passi in direzione di criteri di sviluppo più attenti all'ambiente e alla crisi climatica sono stati fatti dalla Commissione attuale, per iniziativa della stessa presidente, Ursula von der Leyen,e soprattutto dell'ex commissario Frans Timmermans, ma negli ultimi mesi si sono andate rafforzando le resistenze e le remore sostenute dalla talvolta reale ma spesso presunta necessità di salvaguardare i procedimenti industriali e agricoli dominanti nei diversi paesi. Qualche passo indietro è stato addirittura clamoroso, come quelli sull'uso dei fertilizzanti e sul principio del "riposo" dei campi coltivati, compiuti dalla Commissione in risposta alla cosiddetta "rivolta dei trattori". I loro protagonisti agitavano esigenze in qualche caso giuste, soprattutto in relazione alle politiche nazionali, ma che avevano in generale più il carattere di rivolte nel segno di interessi particolari, che quello di un movimento in grado di considerare gli aspetti generali del cosiddetto green deal. Si tratta di aspetti volti ad affrontare problemi che sono proprio quelli che rischiano di distruggere le prospettive di sviluppo dell'agricoltura europea, come la siccità o le devastazioni climatiche, le tempeste e le alluvioni. Eppure, a chiunque si dedichi a un'osservazione attenta del dibattito politico nei diversi paesi apparirà chiaro quanto, un po' dappertutto, esso sia caratterizzato da toni demagogici e, per quanto riguarda la serietà del disastro ambientale in atto, antiscientifici.

Una delle riforme necessarie è l'eliminazione dell'obbligo del voto all'unanimità che paralizza le iniziative dell'Unione

Tante insufficienze. Si potrebbe continuare con l'elenco delle insufficienze con le quali, in generale, le classi politiche nazionali si stanno confrontando sui grandi temi europei, come, ad esempio, i disastrosi ritardi in materia di politica comune fiscale o la tendenza a privilegiare politiche di bilancio restrittive che, come si è visto con il rinnovo del Patto di stabilità, rischiano di soffocare le prospettive di crescita, come avvenne nell'era, da tutti a parole ripudiata, della cosiddetta austerity.

Il rischio è che i temi nazionali prendano Il sopravvento e mettano in secondo piano quelli che Interessano l'Unione

Funzionamento inceppato. Ci limitiamo, però, a indicare un ultimo aspetto sul quale l'attenzione dei partiti e dei candidati alle elezioni europee appare drammaticamente insufficiente: la necessità di una riforma dei criteri di funzionamento delle istituzioni europee che le renda più efficienti e soprattutto più democratiche. Anche senza spingersi a invocare una radicale riforma dei Trattati europei (alla quale prima o poi si dovrà mettere mano), dovrebbe essere evidente che nei prossimi cinque anni di legislatura sarà indispensabile una riforma che elimini almeno l'obbligatorietà del voto all'unanimità, che è una formidabile arma di ricatto offerta ai governi che contrastano lo sviluppo dell'integrazione e un istituto paralizzante nei confronti dell'iniziativa europea su tutte le materie.


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